Il rococò nella letteratura settecentesca (1960)

Il rococò nella letteratura settecentesca, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 64°, s. VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1960, relazione letta al convegno «Manierismo, barocco, rococò», Roma, Accademia nazionale dei Lincei, aprile 1960, poi con il titolo Il rococò letterario in Manierismo, barocco e rococò, concetti e termini, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, quaderno n. 52, 1962, e con il titolo originario in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963 ed edizioni successive.

IL ROCOCÒ NELLA LETTERATURA SETTECENTESCA

Non mi dilungherò sull’origine e l’etimologia del termine, che pur richiederebbero un’apposita ricerca e un’illustrazione di cui qui vengono richiamati solo alcuni elementi e che mal rientrerebbero nell’economia e nella destinazione di questa relazione[1].

Accettata comunemente è l’etimologia del termine come alterazione scherzosa-popolareggiante di «rocaille» e come designazione dello stile figurativo che di quell’elemento[2] aveva fatto largo uso. La parola, come è noto, si trova autorevolmente testimoniata, nel suo valore dispregiativo-ironico datole dal gusto neoclassico e in ateliers neoclassici e romantici, nel ben conosciuto passo di Stendhal in Promenades dans Rome, dove lo scrittore parlando, sotto la data 25 marzo 1828[3], di Bernini «homme d’esprit, homme de talent, qui dans tous les genres a été le père de la décadence», aggiunge: «Me permettra-t-on un mot bas? Le Bernin fut le père de ce mauvais goût, désigné dans les ateliers sous le nom un peu vulgaire de rococo. Le genre perruque triompha en France sous le règne de Louis XIV et Louis XV».

Il termine si diffuse poi abbastanza rapidamente nelle varie lingue europee o nel senso di stile figurativo (variamente determinato cronologicamente e tecnicamente e con varia forza dell’intenzione dispregiativa) del Settecento reggenza e Luigi XV, o come indicazione, di iniziale uso parigino, di cose goffe, fuori moda, vecchie, ridicole, come appare dalla seguente citazione del Paris et les parisiens (1835) di Frances Trollope: «Ce mot nouveau (rococo) est appliqué, par la jeunesse novatrice, à tout ce qui porte l’empreinte du goût, des principes ou des sentiments du temps passé»[4], e come precisa, con maggiore articolazione di tutto l’ambito semantico del termine, il Complément au Dictionnaire de l’Académie (1842): «Il se dit trivialement du genre d’ornements, de style et de dessin, qui appartient à l’école du règne de Louis XV et du commencement de Louis XVI. Le genre rococo a suivi et précédé le pompadour, qui n’est lui-même qu’une nuance du rococo. Le rococo de l’architecte Oppenordt. Il se dit, en général, de tout ce qui est vieux et hors de mode, dans les arts, la littérature, le costume, les manières, etc. Aimer le rococo. Tomber dans le rococo. Cela est bien rococo»[5].

Mentre sarà da segnalare lo scambio fra rococò e barocco (ritrovabile anche a inferiori livelli di precisione e di conoscenza) che intorno a quegli anni inizialmente faceva il Burckhardt tentando di questi termini un uso categoriale per l’architettura e mostrandoci comunque le prime incertezze di uso del rococò nella critica e storiografia figurativa. Se infatti nel Cicerone (1855) il Burckhardt adoprerà uniformemente barocco ad indicare un’arte disorganica e ornamentale, negli scritti precedenti, dal Die Kunstwerke der belgischen Städte (1842) al Die Zeit des Konstantins des Grossen (1853), egli si serve a tale scopo della parola “rococò”[6]: «Es gibt ein römisches, gothisches und so weiter Rokoko».

Per quel che riguarda l’Italia la parola si diffonde intorno al ’40 soprattutto ad indicare sia particolari oggetti (cosí chiamati o per forma capricciosa e per analogia con precise forme «rocaille» o semplicemente per il loro gusto antiquato e fuori moda), sia appunto il solito atteggiamento o gusto antiquato e stravagante: magari un dolce napoletano di dura pasta di mandorle «rocailleuse», o ninnoli e soprammobili non ben identificabili in un verso dell’Amor pacifico del Giusti[7] o una carrozza venuta di moda a Milano nel 1839 sul tipo delle «prime carrette» cinquecentesche, come documenta il Cherubini nella seconda edizione del suo Vocabolario milanese-italiano (1832-43), in una voce assai interessante sia per la conferma cronologica che se ne può ricavare (la voce mancava nella prima edizione del 1813), sia per la spiegazione e la stessa singolarità della proposta etimologica: «Ogni armadio, ogni utensile, ogni abito, ogni mobile che colle sue forme rammemora un vecchiume di gusto borrominesco e capriccioso è oggidí battezzato alla rococò, forse dall’orocou mentovato dalla Tariffa della Gabella di Firenze, Cambiagi 1781»[8]. Mentre, nel Tommaseo-Bellini (1865), la voce assai abbondante ribadisce, con punte di tommaseana gallofobia, il senso dispregiativo della parola anche nel senso del gusto e dello stile settecentesco: «Parola goffa e cosa goffa, venuta di Francia. In opera d’arte, o in quanto il mestiere intende tenere dell’arte, specie di disegno e di stile, che negli edifizii e ne’ fregi e negli arredi usava in Francia tra la metà del secolo passato e la fine; e che rappresenta la depravazione del senso intellettuale e morale e quella goffaggine in cui va a cadere l’affettata eleganza. Anche il suono è imitativo. In qualche palazzo di signori di Firenze veggonsi tuttavia stanze con seggiole e mobili alla rococò; e certo vezzo di erudizione balorda li fa ricercati; e se ne vendette caro. In genere ogni anticaglia e vecchiume. Un toscano moderno: lasciate in pace gli Dei d’Omero e tutti gli altri rococò della poesia. E di ogni costumanza e di cosa, e di persona, dicono: è rococò. E chi parla cosí non s’avvede d’essere lui rococò».

La parola rimaneva viva soprattutto in quest’ultimo senso (che attualmente è praticamente scomparso dalla lingua comune sicché essa suscita l’ilarità dei non colti sol per il suo suono onomatopeico) e come designazione di oggetti di arredamento e mobilio, piú che di architettura e pittura, come può vedersi nel curioso volumetto del Fanfani, Una casa fiorentina da vendere (Firenze, 1868), dove, in un singolare bric-à-brac di mobili e oggetti, in un salotto compare «una consolle, tutta dorata, con begli intagli alla rococò» e – nella direzione condannata dal Tommaseo proprio a Firenze – si dà una spiegazione piú accogliente dei mobili alla rococò: «Si chiamano alla rococò que’ mobili con molti ornamenti di fogliame o d’altro, generalmente dorati, che non sono di disegno corretto e classico, ma che pure fanno assai bella vista, nel modo che si usava nel secolo passato». Ma, ripeto, in genere la parola è usata prevalentemente in senso dispregiativo di cattivo gusto[9], di fuori moda e «forestiero», come dice ancora l’Arlia parlandone anche come di stile «quasi barocco»[10].

Del resto le incertezze che affiorano anche in questa insufficiente documentazione dell’uso della parola nel corso dell’Ottocento in sede non tecnica, non mancano (come si è visto nel caso del Burckhardt) anche nell’uso fattone nella storiografia e critica delle arti figurative come indicazione di uno stile preciso nelle varie arti figurative e come termine di periodizzazione artistica. Solo verso la fine del secolo la parola viene acquisita nel linguaggio tecnico e critico delle arti figurative anzitutto in Germania (gli studi del Gurlitt, e dello Schmarsow[11]), con una storia di sviluppi ed estensioni e precisazioni e discussioni di cui qualche cenno è reperibile nel recente saggio del Tintelnot, Zur Gewinnung unserer Barockbegriffe[12], ma di cui sarebbe ben utile una sicura precisazione, utile anche in funzione del problema che qui direttamente ci riguarda: il trasferimento, e la legittimità e validità del trasferimento, del concetto e del termine di rococò dalla storiografia artistica a quella letteraria[13].

Basti almeno osservare che la discussione è tutt’altro che chiusa anche nel campo delle arti figurative, sia per l’origine, la portata, il significato, i supporti e nessi storici e sociali dell’arte rococò[14], sia per la sua estensione cronologica rispetto alla quale la recente mostra di Monaco, Europäisches Rokoko, propone addirittura una coincidenza di rococò e Settecento europeo su cui già il Sedlmayr (in una delle introduzioni del catalogo della mostra anzi ricordata) fa giustissime riserve anche nel semplice ambito delle arti figurative: «Das Rokoko ist selbst in Frankreich und erst recht in Deutschland und Europa nur eine Möglichkeit des Dixhuitième unter vielen anderen gewesen. Die Palastkapelle von Versailles und die Karlskirche in Wien gehören so wenig zum Rokoko, wie Bach und Händel oder wie Balthasar Neumann und Tiepolo, so wenig wie Tessin, Juvarra, Bonavia, Piranesi, Gainsborough oder das Petit Trianon, von Goya oder Ledoux ganz zuschweigen. Aber von einem Hauch des “esprit nouveau” ist im Dixhuitième bis zur Grossen Revolution vieles berührt, was dem Rokoko im strengen Sinn nicht zugerechnet werden kann»[15].

Tanto piú dovrà sottolinearsi una mancanza di concordia anche generica a proposito del rococò letterario: persino nei riguardi di quella storiografia letteraria, quella germanica, cui si devono – sulla scia delle teorie wölffliniane e del trasferimento in sede letteraria della nozione di barocco ad opera del Walzel e dello Strich intorno al 1916[16] e sulla spinta congiunta della Stilgeschichte e della Geistesgeschichte – l’adozione di rococò in storia letteraria e alcuni tentativi, di vario impegno, di precisarne il concetto, il valore di stile letterario, l’estensione di periodo anche su piano europeo, ma soprattutto applicazioni numerosissime alla storia del Settecento tedesco e (con minore abbondanza) a quella del Settecento francese. In una vicenda di interventi che posso qui solo rapidamente riassumere e che certo richiederebbe – per essere piú istruttiva e meglio sorreggere una discussione sulle proposte desumibili dalle trattazioni degli storici letterari tedeschi – un preciso esame delle rispettive posizioni metodologiche (laddove esse son ricavabili anche in forma rudimentale e scolastica) dato che alla fine una soluzione della accettabilità o meno, e dei modi di accettazione, di una periodizzazione letteraria rococò investe evidentemente questioni di metodo.

Basti almeno indicare come in una dialettica assai ampia (ma che in fine, fra ’20 e ’30, non ostacolava comunque l’adozione di rococò persino nei manuali scolastici[17]) gli storici e critici tedeschi abbiano introdotto nello studio della letteratura settecentesca del loro paese il termine «rococò». Prima conglobando la lirica rococò nella Aufklärung in contrapposizione alla lirica barocca pur dentro ad una piú vasta e dialettica unità di «barocco» (la tesi dello Cysarz[18]) o piú precisamente – come nell’Ermatinger[19] – facendo del rococò la Lebensform di un’epoca di cui la Aufklärung era la Denkform, con la proposta ulteriore di Mischformen intermedie «zwischen dichterischer und lehrender Literatur» caratterizzate da una lingua realistico-razionale. Poi limitando questa spinta piú decisa, che nella complessa formulazione dell’Ermatinger[20] portava a identificare in rococò il corrispettivo letterario e poetico di illuminismo, e riducendo – anche in relazione a elementi di carattere nazionalistico e romantico-classico «tedesco» – il periodo rococò a parentesi di origine francese di scarsa importanza nella storia spirituale e letteraria tedesca, e soprattutto ritrovandone la piú vera presenza nella poesia anacreontica, nel komisches Epos, e nei komische Romane: come avviene nella Deutsche Literatur der Aufklärungszeit del Köster[21].

Mentre lo Schneider[22] accentuava l’identificazione del rococò con l’anacreontismo e con il Wieland piú «francese», ma con ben diversa apertura di simpatia e con positiva valutazione degli elementi di freschezza e di Naivetät vivi nelle migliori opere rococò. E il Kindermann[23] accettava sí l’interpretazione del rococò come «eine typische Alterserscheinung der Aufklärungsbewegung», ma appunto come «una» di tali manifestazioni precisabile di nuovo nell’anacreontismo 1730-60 e contraddistinta come corrispettivo degli atteggiamenti di una borghesia che tendeva a nobilitarsi con una maschera di ottimismo e di grazia, di scetticismo e di raffinatezza formale, di ironizzazione ed erotismo senza vera giustificazione vitale e sociale.

Piú recentemente, accanto a un piú particolareggiato uso dell’elemento rococò nell’opera del Wieland in lavori a questo scrittore dedicati (come quello del Sengle[24] che propone fasi di arte rococò e sin di Rokokophilosophie come saggezza scettica e brillante, entro una rappresentazione estremamente articolata dell’attività wielandiana), si possono sostanzialmente contrapporre un nuovo tentativo di unitaria sistemazione del rococò e dell’illuminismo nella letteratura tedesca entro una unificazione stilistica illuministico-rococò basata sul Witz come Formprinzip della cultura e della poetica dell’epoca nella proposta del Böckmann[25] (donde la posizione di presupposti filosofici di tale Formprinzip di Wolff e Leibniz, che il Barth invece collocherà in diretto rapporto con il barocco[26]) e nuove caute riserve e limitazioni circa la stessa validità della nozione di rococò e la sua presenza cronologica. Cosí il Martini[27] mira a delimitare il rococò come Zeitstil nel periodo 1740-47 (eleganza spiritosa di eredità barocca ma «jetzt glatter, verfeinerter, vernatürlicht, spannungslos») di un’epoca volta ad una serenità e socievolezza che si risolvono in giuoco leggero ed estetico e che sarebbe, tutto sommato, una Ergänzung estetica della Aufklärung. E il Newald[28] particolareggia tale delimitazione e la giustifica come epoca dell’anacreontica e come periodo di una «liebenswürdigere, an die höfische Gesellschaftsform gebundene Aufklärung» (la linea francesizzante che giunge a Wieland) e formula forti riserve sulla «Anwendung des Wortes Rokoko auf einen literarischen Stil (Ausklang oder Nachblüte des Barocks) und eine geistige Bewegung», considerandola comunque come insufficiente ad esaurire tutta la poesia tedesca anche nel periodo piú propizio, dal 1730 al 1770.

Par dunque da costatare conclusivamente una forte alternanza di spinte piú decise e di riserve e limitazioni circa la periodizzazione e la stessa adozione del rococò come stile letterario nella storiografia letteraria tedesca, che è comunque quella che piú costantemente ha discusso e applicato variamente la validità e l’uso del rococò letterario.

Come non sono mancate da parte di studiosi germanici applicazioni, di vario valore, del rococò alla letteratura francese, scelta fra le altre letterature europee per la sua centralità nella letteratura e cultura settecentesca: come lo studio del Rohrmann sulla lirica rococò[29], quello della Hübener sul romanzo cortigiano[30], quello del Fulda sui racconti in verso[31], quello della Greve sull’illuminismo[32], o il confronto dello Hiller fra lo stile barocco di Corneille e lo stile rococò di Lessing drammaturgo[33].

Fino al piú ambizioso tentativo di Helmut Hatzfeld, Rokoko als literarischer Epochenstil in Frankreich[34], che, su di un ampio appoggio di precedenti studi[35], propose una ricostruzione di tutto il Settecento francese come rappresentato stilisticamente dallo stile epocale rococò, con evidenti implicazioni di estensibilità ad altre letterature.

Uguali sostanzialmente per tutto il secolo fondamentali temi e stilemi, anche se con aggregazioni e amalgami di elementi ritrovati entro un ambito sostanzialmente unitario di Weltanschauung e di umanità rococò. Ché il «Rokokomensch ist prototypisch verkörpert in Voltaire»[36], «aber auch Rousseau verkörpert einen sehr wesentlichen Aspekt des Rokoko, nämlich den ganzen Malaise der Spannung zwischen Natur und Zivilisation». E la postulazione del secolo di un metaphysisches Vakuum e di un sostanziale Abstraktismus porta a considerare il rococò come tentativo velleitario di coprirli con paradosso, eleganza, erotismo (gamma di aspetti in cui prevale il gusto), e tutta la grande epoca illuministica (non distinta poi dall’epoca primo-settecentesca e dalle fasi preromantiche e neoclassiche) appare riconducibile entro l’ambito dello stile e della Weltanschauung rococò e cosí rappresentabile come una Rokokoerscheinung. Visione che, malgrado spunti non inaccettabili se precisamente localizzati e distinti, risulta ambigua, superficiale e confusionaria, e che lo Hatzfeld, quanto a utilizzabilità di periodizzamento, venne ancor peggiorando non tanto nel discutibilissimo volume Literature through Art[37], quanto nel piú recente articolo Der Barock vom Standpunkt des Literarhistorikers betrachtet[38], in cui basti ricordare che Marivaux, prima qualificato come rococò, viene designato come tipico rappresentante di un Regence-Barockismus (e Barockismus è poi, come si sa, per lo studioso il termine stesso dell’italiano marinismo).

Insomma la proposta dello Hatzfeld risulta, a mio avviso, inaccettabile e, mentre rivela un fondo di incomprensione e di antipatia ben poco storica per l’illuminismo e la sua profonda serietà, confonde, non vedo con quale vantaggio (se non quello di spingere a disfare questo groviglio di personalità e di tendenze storicamente e letterariamente diverse), le posizioni culturali e stilistiche di un Marivaux e di uno Chénier, di un Voltaire e di un Rousseau. E che vi siano elementi di gusto rococò in Voltaire e di continuità in tal senso fra Marivaux e Voltaire (secondo un noto scritto dello Spitzer e altrettanto note pagine dell’Auerbach[39]) può essere accettato, purché precisato in una complessa descrizione critica dell’opera voltairiana e non esteso assurdamente a motivo centrale della personalità e dello stile dell’autore del Siècle de Louis XIV e delle tragedie classicistico-illuministiche.

L’estensione su piano europeo, non direttamente affrontata dallo Hatzfeld, e la completa validità «epocale» del rococò come stile e spirito di tutto il Settecento in ogni sua manifestazione spirituale, sociale, culturale, artistica, sono state affermate piú recentemente, in ambiente germanico, da un volume strettamente legato alla mostra monacese del 1958 Europäisches Rokoko[40], e, seppure di intento largamente divulgativo, non privo certo di ambizione e di sintomatica riassuntività di posizioni stilistiche e sociologiche, particolarmente tedesche, tese all’affermazione di «totalizzazioni» epocali sempre piú estensive e intransigenti.

Come è appunto quella del volume Die Welt des Rokoko[41], a cura di Arno Schönberger e Halldor Soehner, che, sulla base di una ricca e spesso suggestiva raccolta di illustrazioni e di osservazioni desunte da vari testi critici di storia figurativa, letteraria, sociologica (spesso interessanti e stimolanti se ricondotte entro piú precisi e delimitati contesti storici), propone l’assoluta equivalenza fra rococò e Settecento europeo, la qualità del rococò come denominatore comune di ogni fase del Settecento europeo in ogni direzione artistica, culturale, letteraria; con al centro il Rokokomensch hatzfeldiano (anche se ora in luce di simpatia) e con una risoluzione del secolo ad un «tutto», anche se, lo si ammette, un tutto pieno di contraddizioni: ein widerspruchsvolles Ganzes. Carattere di contraddittorietà che non può non risultare da simili operazioni che unificano come in un tutto piú o meno sincronico ciò che si è svolto dialetticamente in complessi «tempi» e in diversi contesti storici, sociali, culturali, artistici. Per non dir poi (di fronte a questa unità del Settecento in chiave rococò anche nella Weltanschauung, nell’atteggiamento religioso ecc.) di come finiscano cosí per essere scartati, come troppo incomodi, elementi importanti nella vita spirituale culturale del Settecento, quali il pietismo o il giansenismo, mal configurabili in formule di giuoco e doppio giuoco della ragione, di maschera elegante e spiritosa del «metaphysisches Vakuum».

Né, d’altra parte, scartata la possibile proposta di un rococò categoriale, sarà accettabile (fra arti e letteratura) quella di un rococò come fase di un generale manierismo secondo gli accenni ricavabili dal noto libro dello Hocke, per il quale lo stesso nome (da rocaille = Muschelwerk) e la affinità di esso con la presunta etimologia del barocco dalla perla irregolare che nasce ugualmente da una conchiglia indicherebbero l’appartenenza del rococò al manierismo di cui rappresenterebbe una versione di «preziösverzärtelter, dekadenter Manierismus des 18. Jahrhunderts»[42]: ché è evidente, in tutto il libro citato, l’estrema astoricità e il prezioso groviglio intellettualistico. Anche se l’avvicinamento fra manierismo e rococò può stimolare a piú precise individuazioni di rapporti particolari fra alcuni aspetti della letteratura e del gusto primosettecentesco e riprese di esempi e stimoli di zona manieristica[43].

Di fronte all’abbondanza degli studi tedeschi (e salvo qualche propaggine di studi americani in rapporto con le scuole di studiosi tedeschi emigrati[44]), scarsissimo è stato l’interesse per l’uso letterario di rococò nella critica francese, inglese e spagnola e nella storiografia marxista dei paesi orientali: si potrà ricordare l’uso sporadico della parola nella Skizze einer Geschichte der neueren deutschen Literatur del Lukács, in cui barocco e rococò son designati come convenzioni cortigiane contro cui reagiva l’illuminismo[45], o nella Historia de la literatura españiola del Valbuena-Prat, dove si adopera la parola solo per un paragone di Moratín con Mozart[46]. Tanto che qui il mio rendiconto diviene davvero una tavola di silenzi e di assenze. E sarà anzi da notare come significativo che nel recente Dictionary of Literary Terms[47] si segnali come uso letterario della parola rococò solo la Rokokodichtung tedesca.

Ed anche fra i nostri storici di letterature straniere potrà sol ricordarsi, per quanto mi consta, la adozione di rococò come periodo letterario nel capitolo omonimo della Storia della letteratura tedesca del Santoli[48] che in quello incluse Gessner e Wieland (nei quali però avverte anche i primi segni del sentimentalismo preromantico).

Ché, per il resto, solo per la letteratura inglese il Praz[49] accenna al rococò nel Rape of the Lock di Pope con queste parole a lor modo limitative, ma anche aperte a possibili piú ampie interpretazioni: quel poema «è ben piú che uno scherzo elegante: è come se il gusto decorativo di tutta un’epoca – il rococò – s’animasse in umanità o come se la vita leggiadra ed effimera di tutto il secolo s’incarnasse in un simbolo plastico, il riccio».

In Italia, che fu la prima ad accettare, con il Croce, la nozione di barocco come designazione di tutta un’età, nessuna storia letteraria ha proposto una periodizzazione «rococò». Ma il Momigliano, già nel 1925, nel commento al Giorno, si serví piú volte del termine «rococò» ad indicare aspetti del gusto e della costruzione pittorica pariniana di scene e quadretti[50] e a precisare il carattere affascinante della società frivola ed elegante satireggiata e vagheggiata dal poeta: «la grazia rococò della nobiltà contemporanea»[51].

Mentre spunti piú decisi, ma poi non sviluppati, appaiono successivamente nella Storia della letteratura italiana (1936) non solo per il Parini (per il quale del resto, sull’avvio del Momigliano e delle piú generiche osservazioni del Mazzoni sui rapporti pariniani con la pittura[52], Domenico Petrini nel 1930 – in piú preciso rapporto con la sua attenzione a vicinanze pariniane con la pittura di Watteau, Boucher, Fragonard, Chardin, Greuze – parlò di «artista rococò» nel Giorno, di un «rococò delicato e calmo» per la favola del canapè[53]), ma anche per Goldoni, che «pur restaurando nel teatro il senso del reale rimane uno dei piú caratteristici poeti del rococò»[54], e soprattutto, e piú efficacemente, per il Savioli: «se prima del Giorno vogliamo vedere qualche limpida scena rococò dobbiamo leggere gli Amori, in parecchi dei quali c’è lo stesso squisito mondo nobiliare di quel poema»[55].

E piú tardi, in Gusto neoclassico e poesia neoclassica, gli Amori per il Momigliano «rivelano il punto di coincidenza fra il classicismo da una parte e l’Arcadia e il rococò dall’altra»[56]: incontro fra neoclassicismo e rococò agevolato dalle «scoperte ercolanensi, che erano in parte documento di un gusto raffinato e grazioso». Mentre il Monti avrebbe poi «deformato in barocco il rococò del Savioli»[57].

Ma gli spunti del Momigliano e del Petrini non ebbero sviluppo negli studi italiani sul Settecento[58], nei quali prevalse invece la discussione sulle origini, il significato, l’estensione dell’Arcadia, sulla continuità Arcadia-Illuminismo (anche a proposito di Goldoni e Parini) e sullo svolgimento preromantico e neoclassico del secondo Settecento. Ed anche in studi piú precisamente rivolti al rapporto fra gusto poetico e gusto figurativo (come quelli raccolti dall’Ulivi in Settecento neoclassico[59]) mancò un’effettiva attenzione alla possibile considerazione di una fase o di una incidenza del rococò nella nostra letteratura.

Mentre io, partecipando alla discussione e alla ricostruzione della letteratura settecentesca italiana con un forte calcolo delle forze culturali e storiche del secolo nel loro sviluppo e nella loro articolazione (e dunque secondo una impostazione metodologica che non potrebbe certo risolversi in pura e semplice storia stilistica e storia del gusto), sono piú volte ricorso all’ausilio del termine «rococò» come componente di gusto della poetica di singoli autori e di delimitate correnti settecentesche e in relazione soprattutto a forme «figurative» e a ritmi coloriti e agili di tipo rococò: e dunque là dove ho constatato nella poetica personale e di gruppo un effettivo avvicinamento e una possibile analogia con le forme del gusto figurativo e con motivi di pensiero estetico e di sensibilità che particolarmente in quelle si traducevano con maggiore evidenza.

E cosí ho parlato piú volte di tendenze ed aspetti di una Arcadia razionalistico-rococò, di un classicismo sensistico-rococò, con un tipo di aggregazione di aggettivi caratterizzanti che corrisponde ad esigenze inerenti alla mia impostazione storico-critica, che parte dallo studio delle poetiche per storicamente ricostruire la tensione della poesia e la sua effettiva e personale costruzione facendo in quella confluire gli elementi di cultura, di esperienza, di storia, di gusto, di eredità letteraria effettivamente presenti nella loro commutazione in direzione artistica da parte dei poeti: e dunque in una posizione metodologica in cui la storia letteraria non è né isolata in una astorica e assoluta indipendenza né sommersa documentariamente nella storia, ma è fatta vivere nella sua realtà di peculiarità artistica e di rapporto profondo con tutta la storia attraverso i nessi singoli per cui con quella effettivamente entra in comunicazione e ricambio[60].

E rifiutai cosí coerentemente di accedere sia alla coincidenza intera fra «rococò» e Settecento sia all’impostazione di una unità «epocale» in cui il rococò divenisse piú che una componente di varia forza e di varia intensità di coloratura nello sviluppo articolato della nostra letteratura settecentesca.

Perciò, tentando ora di fare il punto, per parte mia, in questa nostra verifica della validità e utilità del trasferimento della nozione di rococò nella storia letteraria (verifica che, allo stato attuale degli studi, val meglio presentare, mi sembra, in forma di sperimentazione concreta sulla base di concrete esperienze: in questo caso per me soprattutto l’esperienza della letteratura settecentesca italiana), dirò anzitutto che delle resistenze o dei silenzi constatati nella storiografia letteraria francese, inglese, italiana (e che del resto come resistenze e riserve affiorano nella stessa storiografia tedesca) si possono trovare le ragioni non solo in certa pigrizia mentale o in certa fedeltà passiva e conservatrice a vecchi schemi di tipo ottocentesco (i secoli e le età dei regnanti, per la verità in gran parte ormai sostituiti da schemi di tipo culturale-letterario assai piú consistenti: da noi Arcadia e razionalismo, illuminismo e classicismo, preromanticismo e neoclassicismo), ma anche, e piú, in motivi assai seri e validi. I quali, se non ostano alla mia proposta di considerare il rococò come «componente» di vario peso e a vario livello cronologico nelle diverse letterature e nelle varie fasi settecentesche[61], spiegano (e possono anticipare pronunciamenti piú espliciti) i dissensi o le riserve di fronte ai rischi cui si va incontro con un’accettazione indiscriminata e totale del rococò come unico stile «epocale» del Settecento o di gran parte di esso.

Mi sembra infatti che proprio le estensioni piú ambiziose (che sono poi quelle che han pur tentato una precisazione del concetto in sede letteraria e stilistica, in modi in verità piuttosto labili e generici quando pretendono di superare l’ambito di un’arte «lieta», «colorita», «agile» e «mossa», traduzione artistica di un ritmo vitale non drammatico, ma semmai melodrammatico, precisazione in lucida e sfumata scena e figura di una gioia vitale socievole e mondana, galante, come fruizione del presente e piú valida dunque entro contesti storici e sociali assai definiti o definibili) abbiano funzionato e funzionino in senso negativo, provocando reazioni generali e indiscriminate e il timore da parte di molti di venire attratti dalla nota proprietà onnivora di certe parole, in una falsificazione del Settecento e delle sue forze storiche, culturali e letterarie varie e complesse, in una inaccettabile riduzione e trascuranza – nella storia letteraria inseparabile dalle sue inerenti ragioni di cultura e di storia – di elementi di fondo che proprio piú recentemente il lavoro congiunto degli storici, degli studiosi di estetica e degli storici letterari ha fortemente rilevato contro certe vecchie interpretazioni del Settecento solo come secolo frivolo e minuettistico, causeur e salottiero[62].

Cosí come l’analogia troppo facile e indiscriminata con le arti figurative nella riduzione a rococò (essa stessa del resto inaccettabile ché, come ho già detto, sarà poi ben difficile render «rococò» Goya o Piranesi, cosí come ,nella storia della musica, Bach o Mozart e moltissimi altri[63]) può far temere (quando si pensi poi alla interpretazione piú corrente del rococò figurativo come forma o continuazione terminale del barocco[64]) di venire condotti, attraverso l’uso del termine di rococò, a considerare il Settecento, o gran parte di esso, come semplice prosecuzione dell’età barocca e della letteratura barocca: pericolo che potrebbe esser suggerito in parte anche dall’articolazione dei temi proposti dal nostro convegno, che allinea manierismo-barocco-rococò in una serie che ha al centro il barocco, di cui il rococò potrebbe apparire semplice fase terminale riconglobabile poi in barocco dall’unica relazione storica sull’età barocca[65]. Proprio quando invece (parlo almeno per la critica italiana) una tradizione impostata validamente dal Croce considera già l’età dell’Arcadia come non priva di una sua forza di inizio di una nuova epoca legata alla nuova cultura razionalistica, a forme di vita indubbiamente non piú barocche e alle possibilità di sviluppo di razionalismo in illuminismo.

E se la ricostruzione crociana del Settecento italiano può apparire a sua volta troppo drastica e viziata poi dalla sua proposta di continuità arcadica in tutto il secolo fino ad Alfieri escluso (mentre forti cesure van pure avvertite nel secolo all’altezza dell’affermazione illuministica che incide anche sulla poetica del tempo, e piú ancora all’inizio del preromanticismo), certo già la zona arcadica, con le sue esigenze razionalistiche e classicistiche, implica motivi di novità sostanziale rispetto al barocco sia in sede culturale sia in sede letteraria, dove le esigenze del «buon gusto» non sono separabili dal buon discernimento critico razional-sperimentale, le esigenze di chiarezza e regolarità, organicità della poesia (anche se spesso piú velleitarie e didascaliche che effettivamente attuate con vera nuova poesia) non sono separabili dai corrispettivi di cultura, di erudizione, di filosofia e morale e la rivolta al barocco si alimenta di novità consistenti in campo estetico, di nuovi atteggiamenti di vita, di costume, di rapporti civili[66].

Sí che anche una piú duttile rappresentazione delle origini dell’Arcadia, che calcoli convenientemente anche elementi di continuità e di ripresa di forme barocche, va sempre rigorosamente diretta dalla costatazione di una fondamentale coscienza nuova, la cui spinta piú profonda mal si potrebbe solo configurare in «rococò» e tanto meno in rococò come fase di pura continuazione barocca. Esigenze di una tradizione critica (soggette a discussione, ma mai interamente sovvertibili) che implicano poi evidentemente ragioni metodologiche di tipo storicistico che appaiono anche su questo piano non disposte ad accettare una ricostruzione della storia letteraria solo su base di vecchia Stilgeschichte di origine wölffliniana o anche di una nuova e piú avveduta critica stilistica, alle quali si legano finora le proposte non italiane dell’assunzione del rococò come stile letterario «epocale».

Si aggiungano poi la genericità delle stesse proposte in sede di giustificazione del concetto letterario di rococò, e, su piano europeo (ché certo una delle attrattive maggiori della proposta di periodizzazione rococò potrebbe essere quella di un maggior raccordo, se pur duttile e storicistico, fra le varie letterature settecentesche), l’effettiva difficoltà di una sincronia dei momenti caratterizzabili come piú verisimilmente rococò nelle diverse letterature europee. Si pensi, ad esempio, al caso della letteratura inglese in cui forti elementi preromantici compaiono sin dal quarto decennio del secolo con autori come Young e Gray e con il romanzo naturalistico-sentimentale, che certo non si potrebbero, con ogni buona volontà, caratterizzare come rococò se non fosse con lo sterile e arbitrario giuoco delle totalizzazioni di contrasto e opposizioni.

Insomma molte difficoltà si oppongono, secondo me, ad una decisa adozione del rococò nella storia letteraria e (scartata anzitutto ogni tentazione di tipo categoriale e astorico incidentalmente avvertibile molto sporadicamente, come nel caso del Chase[67] che considera la Dickinson poetessa rococò, e rifiutata energicamente l’adeguazione assurda fra tutto il Settecento e il rococò) consigliano di accoglierne un uso, a mio avviso, proficuo, in casi particolari, come componente di gusto[68] di varie direzioni storico-letterarie.

Si potrebbe parlare utilmente e ragionevolmente di una componente rococò nella poetica classicistico-razionalistica del Pope (come del resto ha implicitamente fatto il Praz), di una forte coloratura rococò in varie manifestazioni della letteratura francese fra poésies fugitives[69], Marivaux e prosa di romanzo galante (ma per gli illuministi veri e propri starei tanto piú attento a non scambiare il peso di un elemento di gusto e un uso di eleganza in funzione di divulgazione con quello delle forze centrali che alimentano la loro prosa e il loro stile) e ben chiaramente negli anacreontici tedeschi, in aspetti molto notevoli dell’opera di Wieland e dell’idillio gessneriano (in cui pure affiora un intenerimento sentimentale che guida piú chiaramente ad altri sviluppi e rompe il rococò verso il preromanticismo), o in certa produzione del giovane Goethe, e, in Italia, in zone e scrittori fra Arcadia e classicismo edonistico di metà secolo fino ad aspetti della poetica pariniana.

Considerazione del rococò come «componente» di piú complesse poetiche che, senza indurre a far del rococò il soggetto unitario delle poetiche e delle zone in cui la sua presenza può esser provata non ipoteticamente o il loro unico esponente artistico e stilistico (ché esso stesso varia e si muove nella sua diversa aggregazione con altri elementi – classicismo, sensismo, razionalismo, illuminismo – e con l’effettivo muoversi di tutta la civiltà e la cultura e le condizioni storiche e sociali), può permettere di meglio graduare anche in seno a piú vaste unità letterario-culturali (Arcadia o Illuminismo) la loro effettiva consistenza e mobilità piú individuata nell’attività di singoli gruppi ed artisti. E in questo modo può anche risultare una certa mobile e dinamica unità di questa componente nella diversità del suo rapporto e della sua funzione rispetto ad altri elementi e forze, una lata e variata continuità di questo punto di riferimento di gusto e di tensione artistica in letteratura, la cui totale scomparsa o la degradazione a semplice residuo non piú vitale e puramente ereditario di una educazione superata in nuovi nodi di poetica (o come mèta di ironia e di polemica o come emblema e coloratura di nostalgia) servirà anche a segnare piú fortemente il passaggio a zone piú decisamente nuove del secondo Settecento.

Cosí – in uno scorcio che non può non riuscir inevitabilmente insieme affollato e schematico – mi pare che l’attenzione ad una componente rococò e al suo valore (nell’appoggio alla sua piú forte evidenza e consistenza nelle arti figurative e alla sua autorizzazione da parte di certe tendenze del pensiero estetico generale: il gusto del «je ne sais quoi»[70], del capriccio e dell’estro) possa – nell’esempio qui proposto della letteratura italiana del Settecento – utilmente contribuire anzitutto ad una migliore articolazione della stessa poetica arcadica, delle sue origini e del suo sviluppo, ad una migliore rappresentazione del complesso rapporto fra la novità indubitabile inclusa nella volontà di ripresa classicistica antibarocca collegata con le radici razionalistiche del «buon gusto»[71], e la filtrazione in questo di elementi di eredità secentesca. Prima complesse forme di «barocchetto» prearcadico e arcadico[72]: struttura classicheggiante con spostamento in funzione ornamentale di elementi piú mossi e fioriti in certa poesia di tipo filicaiano e guidiano o melodia fiorettata e forme «spiritose» ridotte e filtrate attraverso il convergere di chiarezza e linearità e ambigua volontà di nuova tematica religiosa-gesuitica nel De Lemene. Poi (bloccato o ridotto lo sviluppo di un classicismo mitico-didascalico di forte tensione morale e civile implicito nella poetica del Gravina che non può certo risolversi in chiave rococò, come non si può fare per la forte spinta morale del Maggi e di certi aspetti della poetica del Muratori o per la poesia del Manfredi[73]) il profilarsi sempre piú sicuro di una poetica arcadica che, nella sua tendenza miniaturistica («rifare i classici in piccolo», come prescriveva il Crescimbeni) d’«illeggiadrimento», di piccolezza, di incontro patetico-melodico figurativo, di movimento agile e nitido, razionale e «grazioso», galante (Anacreonte, per dirla con la Dacier, «galand et poli»), di sfumatura attraente e di ornamentazione mitologica e pastorale, si muove in consonanza con sviluppi figurativi rococò piú generali e con temi della pittura e della plastica minore rococò[74].

Come avviene specie nel sonettismo di uno Zappi e di una Maratti, in cui appaiono chiari (con tutto un appoggio di forme di vita, di ideali di socievolezza mondana e di elementi razionali-naturali recuperati fra nuovi rapporti umani) la linea organica e mossa del componimento, il finale rilevato, ma non concettistico[75], il modulo scenico e l’impostazione mobile delle figure miniaturistiche[76] con una tendenza a direzioni artistiche che venivan traducendo nell’arte rococò il gentile patetismo, il gusto di vita e di sogno piacevole che in quel periodo si accompagnava all’impegno culturale razionalistico e preilluministico: in un nesso che sarebbe errato unificare totalmente sotto il segno insufficiente del rococò, ma che in questo ha uno dei suoi elementi di gusto. E questo stesso, nel nesso generale e nella sua funzione specifica, è ormai assai lontano dal vero gusto barocco, di cui cosí sempre meglio appare piú reazione che facile continuazione.

Mentre poi, esaurita la piú vera vitalità delle poetiche arcadiche e la loro tendenza teatrale nella poesia melodrammatica del Metastasio (in cui l’ondeggiamento patetico, il gusto della gradazione delle sfumature sentimentali-tonali, la misura, lo sfondo scenico, il rapporto con la vera e propria scenografia ben comportano chiare allusioni al rococò e precisazioni della forza di una componente rococò[77]), il passaggio nel Rolli ad un piú deciso gusto figurativo e pittorico accompagna, anche sulla base di una piú forte sensuosità dell’immagine e della parola, uno spostamento piú deciso verso la figura. E qui un classicismo piú attento e impegnativo si può precisare (in rapporto al suo sottile erotismo e alla sua aspirazione di eternizzazione perspicua di momenti vitali e galanti) in un tipo di classicismo rococò (la grazia del particolare fisico evidenziato e carezzato, la traduzione perspicua della realtà sensoriale, la plasticità mobile e sfumata della figura) che (dopo i vari esempi del canzonettismo fortemente figurativo di un Crudeli e di un Casti e le prove di vicinanza, fra temi e figure, a certa iconografia rococò di Embarquement pour Cythère watteauiana e scampagnate e cacce alla Van Loo, nell’eclettismo frugoniano insaporito di piú forti fermenti edonistici-sensistici) trova infine il suo sviluppo piú maturo e sintomatico, a metà secolo, negli Amori del Savioli.

Qui (l’occhio di Momigliano aveva visto molto bene) il riferimento al rococò figurativo è tanto piú preciso e, sulla base di una concezione mondana pienamente edonistica (anche se non priva di una libertà libertina che pur si collega a certi aspetti della civiltà illuministica), si precisa una poetica in cui la componente rococò appare tanto piú intensa e colora fortemente l’elemento classicistico in un incontro che è, per me, ormai al di là dell’Arcadia, ma ancora al di qua del vero neoclassicismo, volto com’è tutto a forme di lucida grazia, di tenue e vivace colore, di ornamentazione mitologica in funzione di sensualità e animazione galante e socievole, iridata di ironia e di compiaciuto sorriso: mentre l’immagine si atteggia in precise forme figurative, il quadro compendiosamente corrisponde a moduli di pittura mitologica rococò (regno degli dei minori, per dirla col Sedlmayr[78]), il linguaggio sensistico-classicistico si fa espressione di un mondo stilizzato e prezioso, sorridente e mondano, con decrescente tensione e varietà musicale (il ritmo è piú ripetitorio e piú brillante che approfondito e meno ricco di espressività sentimentale). Arte minore di un classicismo sensistico-rococò che si svolge entro le pieghe della civiltà illuministica, ma che non può certo proporsi come unico esponente letterario di quella nelle sue piú complesse manifestazioni, e che verrà poi cedendo anche in Italia sulla linea del classicismo e su quella del sentimentalismo preromantico di fronte al convergere sincronico delle decisive presenze della Geschichte der Kunst des Altertums di Winckelmann e della versione cesarottiana dell’Ossian, in cui gli elementi rococò saran da considerare appunto come elementi residui e non come dominanti.

E già quando si giunge al Parini la componente rococò, pur cosí vivace in certo gusto specie delle prime parti del Giorno, diviene piú chiaramente un elemento importante, ma funzionale alla descrizione satirica, tra fascino e ironia, del mondo nobiliare, elegante e vuoto spiritualmente. E anche se il rococò è portato da questo grande artista alle sue estreme possibilità di sfumatura precisa, di colore-disegno fluido e frizzante, esso non ha piú la forza di costituirsi come guida della complessa poetica illuministica-sensistica-classicistica del Parini nello stesso poema.

E come riassorbire tutto Parini nel rococò quando si pensi alla impostazione della sua poetica combattiva nelle prime Odi e nel Discorso sopra la poesia, e allo sviluppo neoclassico delle ultime Odi[79]? E lo stesso saldo cerchio pariniano di piacere-virtú, natura-ragione, è ben lontano da ogni semplice compiacimento edonistico, da ogni sola prevalenza di sorriso galante ed epicureo, da ogni possibile giuoco e doppio giuoco della ragione, da ogni complicatezza e ambiguità di maschera, da ogni residuo di Witz, e la prosa pariniana mal potrebbe risolversi in qualsiasi formula rococò: cosí come sarebbe assurdo far ciò con la prosa degli illuministi italiani in cui si potrà al massimo rilevare, col Noyer-Weidner[80], un uso del tutto funzionale di brio e piacevolezza apparentabile col rococò, in rapporto ad una volontà di mediazione socievole e di volgarizzazione che ha al centro ben altri profondi interessi e si costruisce realmente in direzioni di efficacia e di chiarezza pragmatica robusta, razionale, concreta.

Con tutta la sua vistosità, la componente rococò viene ormai, come in un ultimo bagliore luminoso e stanco, esaurendo la sua vitalità entro un mondo tanto piú energico e nuovo di quello arcadico e di quello classicistico savioliano di metà Settecento. E del resto lo stesso gusto figurativo pariniano tende presto a svolgere il suo rapporto con tutto il mondo morale e sentimentale del poeta in direzione neoclassica, come (superato anche nelle arti figurative il rococò nel neoclassicismo eroico e preromantico del Piranesi e nel neoclassicismo piú accademico) in tutta la letteratura posteriore agli Amori la componente rococò scade lentamente a residuo di un gusto ormai esaurito nelle sue ragioni generali e nelle sue suggestioni piú vive.

La stessa iconografia di paesaggio e figura nella letteratura si trasforma, insieme alla nuova tensione delle poetiche preromantiche e neoclassiche al sublime, all’eroico, alla edle Einfalt und stille Grösse o viceversa all’appello del sentimento e della natura selvaggia. E testi ancora di ascendenza classicistico-rococò son risentiti, entro le nuove tendenze, in accentuazioni sentimentali o contemplative assai diverse dalla loro base di partenza.

Sicché nella stessa frequente ripresa di schemi e moduli savioliani (e una storia del saviolismo sarebbe da questo punto di vista molto utile e importante) il Monti porterà una nuova irruenza e immaginosità che mal si contiene in quelli, e il Bertola insinuerà un intenerimento, agevolato dal gessnerismo, che si svolge in forme preromantiche, o viceversa un gusto di placata contemplazione di bellezza che pare anticipare accordi di neoclassicismo foscoliano.

E se ancora nell’Ortis ’98 compaiono moduli figurativi di tipo rococò italiano ed europeo (Bertola, ma anche direttamente Wieland e Gessner[81]), come nella scena di Teresa all’arpa con la contemplazione-degustazione dello scarpino color di giacinto o con la stilizzazione ironica della scena di seduzione delle lettere padovane, essi saranno in quel testo ormai sopravvivenze ben deboli pur nel contesto piú idillico-elegiaco di quella redazione e verranno, nella redazione del 1802, o bloccati in forma di dichiarata ironia e di superiore recupero di tipo «sterniano» o addirittura espunti.

Le zone dunque in cui utilmente può adoperarsi il termine di rococò, come componente di poetiche e indicazione di una linea di gusto fortemente legato al figurativo e che in questo trova la maggiore evidenziazione di aspetti e tendenze comuni alla letteratura e alle arti (ma che almeno in letteratura va inteso sempre solo entro piú complessi raccordi con altri elementi culturali, storici, letterari non riassumibili in rococò tout court[82]), sono, per la nostra letteratura, identificabili nel periodo fra Arcadia e classicismo illuministico e sensistico, prima della piena maturazione illuministica, del neoclassicismo e del preromanticismo.

Penso che, come ho già detto, una simile operazione (basata su precise e spregiudicate verifiche storico-critiche come quella qui riassunta per la letteratura italiana) possa fruttuosamente proporsi, con analogie cronologiche non fanaticamente portate a coincidenze assolute, anche per altre letterature europee: in una visione sempre molto articolata, dinamica e complessa della letteratura che rifiuti le totalizzazioni generiche e onnivore, le pretese di unità stilistiche massicce e assurdamente pretenziose di un’assoluta autonomia delle arti dai nessi storici, sociali, culturali entro cui esse effettivamente realizzano la loro storicità e la loro concreta peculiarità artistica: e dunque inevitabilmente in una prospettiva critica e storiografica a cui son legate radicalmente la mia verifica particolare e la mia proposta, e che anche in questo caso mi ha permesso, da tempo, di meglio rendermi conto e di meglio rappresentarmi lo svolgimento della letteratura settecentesca.


1 Ripubblico qui la mia relazione sul rococò letterario che fu tenuta al Convegno su Manierismo, barocco e rococò all’Accademia dei Lincei, nell’aprile 1960, e che è raccolta negli Atti di quel convegno.

2 La parola rocaille è registrata nel senso di «petits cailloux, coquillages et autres choses qui servent à orner une grotte, à faire des rochers, ecc.», nel Dictionnaire de l’Académie, 1777, che non registra invece ancora rococo, come non lo registra l’edizione 1835.

3 Stendhal, Promenades dans Rome, ed. a cura di A. Caraccio, Paris 1939, II, pp. 65-66. La data di stesura è del 1829.

4 L’Oxford Dictionary registra la parola come introdotta nel 1836 e adottata solo intorno al 1840 come designazione di stile per architettura e mobilio.

5 Devo questa citazione e quella della Trollope alla gentilezza di Charles Bruneau. Per altre indicazioni devo ringraziare i colleghi Migliorini, Nencioni, Contini, Salvini.

6 Nel primo scritto citato si legge: «Zu Anfang des 16. Jahrhunderts nun stürzt die ohnedies abgelebte gothische Kunst vor dem Andrang dieses rein dekorativen Prinzips zusammen, indem dasselbe sich die Antike anschliesst. Die Folge freilich hat nach wenigen Jahrzehnten gelehrt, wie es einer architektonischen Richtung ergehen muss, die von ihren eigenen Blüten, dem Ornamente, leben will; Wert und Bedeutung aller Glieder kommen in Verwirrung, und die Nachwelt hat dafür das Wort Rokoko aufgebracht». Nel libro su Costantino si parla di un rococò della decadenza imperiale romana e in un articolo del ’43, nella rivista «Verona», sulle chiese pregotiche del basso Reno, si insiste su questo uso estensivo di rococò. Lo scambio con barocco fu notato dal Waetzoldt nel Nachwort alla edizione Phaidon dell’opera Die Kultur der Renaissance in Italien, p. 396 (s.d.).

7 È al v. 75 nella strofa 13:

Perché questa signora, hai da sapere

che invece di bijou, di porta-spilli,

di rococò, di bocce e profumiere,

e di quei mille inutili gingilli,

di che sciupando un mondo di quattrini,

tu gremisci vetrine e tavolini, ecc. ecc.

8 La voce orocou (cosí registrata nelle Tariffe citate come merce proveniente dalle Fiandre) va letta in realtà rocou, materia colorante gialla ottenuta da grana di frutto.

9 Testimonianze dirette di quest’uso son ritrovabili nel Gasparoni (citato dal D.E.I.). Gioachino Rossini (v. R. Bacchelli, Rossini, Milano 1959, p. 243) si lamentava, nella sua decadenza, di non esser ormai che un musicista «rococò».

10 C. Arlia, Voci e maniere di lingua viva, Milano 1895. V. anche P. Petrocchi, Novo dizionario scolastico della lingua italiana, Milano 1892 («è sorta d’ornamento bizzarro di moda nella seconda metà del sec. XVIII»); A. Panzini, Dizionario moderno, Milano 1905 («Nel linguaggio familiare francese vieux, suranné, ridicule; e cosí talvolta presso di noi. Nome che i francesi diedero ad un loro noto stile architettonico del tempo di Luigi XV, e che è caratterizzato da bizzarre esagerazioni e ridondanze»).

11 C. Gurlitt, Geschichte des Barockstiles und der Rokoko in Deutschland, Stuttgart 1889; A. Schmarsov, Barock und Rokoko, Leipzig 1897.

12 In Die Kunstformen des Barockzeitalters, München 1956, a cura di R. Stamm.

13 Per la storiografia artistica si veda J. Schlosser Magnino, Die Kunstliteratur, Wien 1924 (trad. it. con aggiornamenti, Firenze 19633) e la trattazione di L. Venturi nella sua Storia della critica d’arte, Firenze 1948.

14 Fra le trattazioni recenti sarà da ricordare almeno il lavoro di F. Kimball, Le Style Louis XV, origine et évolution du rococo, Paris 1945 (su cui v. G. Weise, L’Italia e il problema delle origini del «Rococò», in «Paragone», Arte, 49, 1954, p. 35 ss.).

15 Europäisches Rokoko, München 1958, p. 29. L’importante relazione del Sedlmayr al Convegno dei Lincei conferma le qualità di distinzione precisa che già si affacciavano nelle pagine citate.

16 Si veda in proposito F. Strich, Die Uebertragung des Barockbegriffs von der bildenden Kunst auf die Dichtung, in Die Kunstformen des Barockzeitalters cit.

17 Ad esempio si può citare il piccolo manuale-antologia «für die Prima Höherer Schulen» Barock u. Rokoko, a cura di H. Deckelmann, Berlin, 1931.

18 H. Cysarz, Deutsche Barockdichtung, Leipzig, 1924. (Del Cysarz si v. poi Literarisches Rokoko, Welträtsel im Wort, 1948).

19 E. Ermatinger, Barock and Rokoko in der deutschen Dichtung, Leipzig, 1926, e il capitolo Das Zeitalter des Rokoko in Krisen und Probleme der neuen deutschen Dichtung, Zürich-Leipzig-Wien, 1928.

20 Formulazione che va ben tenuta presente come precedente di alcune formule dello Spitzer e dell’Auerbach che ricorderemo piú avanti.

21 A. Köster, Die deutsche Literatur der Aufklärungszeit, Heidelberg, 1925.

22 J. Schneider, Die deutsche Dichtung der Aufklärungszeit, Stuttgart 1948 (è la seconda edizione riveduta; la prima è del 1924 col titolo Die deutsche Dichtung vom Ausgang des Barocks bis zum Beginn des Klassizismus).

23 H. Kindermann, Der Rokoko-Goethe, Leipzig 1932 (Deutsche Literatur, Reihe Irrationalismus, 2. Band). V. soprattutto il capitolo Geist und Gestalt der deutschen Rokoko-Dichtung, pp. 7-19.

24 F. Sengle, Christoph Martin Wieland, Stuttgart 1949.

25 P. Böckmann, Formgeschichte der deutschen Dichtung, I, Hamburg 1949. La formula del Witz riprende e discute spunti di uno studio di T. Erb, Die Pointe in der Dichtung von Barock und Aufklärung, Bonn 1929.

26 H. Barth, Das Zeitalter des Baroks und die Philosophie von Leibniz, in Die Kunstformen des Barockzeitalters cit.

27 F. Martini, Von der Aufklärung zum Sturm und Drang, Stuttgart 1952 («Annalen der deutschen Literatur»). E il capitolo omonimo in Deutsche Literaturgeschichte, Stuttgart, 1958 (trad. it., Milano 1960).

28 R. Newald, Die deutsche Literatur vom Späthumanismus zur Empfindsamkeit, München 1951 (H. De Boor-R. Newald, Geschichte der deutschen Literatur). Si v. anche, per una delimitazione particolare del rococò, H. Kind, Das Rokoko und seine Grenzen im deutschen komischen Epos des 18. Jhrdts., Halle 1945.

29 E. Rohrmann, Grundlage und Charakterzüge der französischen Rokokolyrik, Breslau 1930.

30 E. Hübener, Der höfische Roman des französischen Rokoko, Greifswald 1936.

31 L. Fulda, Die gepuderte Muse. Französische Verserzählungen des Rokoko, Berlin s.d.

32 M. Greve, Die Aufklärung und das Wirken des modernen Geistes im neuzeitlichen Frankreich, Münster 1936.

33 J.E. Hiller, Lessing und Corneille: Rokoko und Barock, in «Romanische Forschungen», 1933.

34 In «Studies in Philology», 1938.

35 Per il «concetto» si v. V. Klemperer, Der Begriff Rokoko, in «Jahrbuch für Philologie», 1925; H. Heckel, Zum Begriff und Wesen des literarischen Rokoko in Deutschland, in Festschrift Theodor Siebs, 1933; M.A. Isaacs, Baroque and Rococo. A History of two Concepts, in «Bulletin of International Committee of Historical Science», 1937.

36 Op. cit., p. 534.

37 H. Hatzfeld, Literature through Art. A New Approach to French Literature, New York 1952.

38 In «Der Vergleich», 1955.

39 Mi pare infatti di dover porre dei limiti anche all’operazione di risoluzione dello stile voltairiano in termini rococò e di semplice Witz-eleganza e Kleinkunstwerk quale risulta da un notissimo studio dello Spitzer (L’Explication de texte applicata a Voltaire in Critica stilistica e filosofia del linguaggio, Bari 1954), e dalle pagine dell’Auerbach, La cena interrotta, in Mimesis (trad. it., Torino 1956). Non si tratta certo di negare la qualificazione particolare del bigliettino alla Necker o di rifiutarne gli elementi che collegano la prosa voltairiana (fra epistolario e romanzi) alla prosa di stile mediosettecentesco in senso auerbacchiano, ma occorre precisare che il testo della esemplificazione è troppo gracile per sostenere un’estensione della diagnosi stilistica a tutta l’opera voltairiana e che in quella continuità di gusto e stile va ben calcolata la presenza nuova – rispetto a Marivaux o a Prévost – dell’impegno polemico e critico del grande illuminista. Si stia attenti insomma a non capovolgere il rapporto di forza e di funzione fra gli elementi di fondo e quelli di gusto: Candide è ben piú che un semplice romanzo rococò e per esasperare le cose si potrebbe avvertire di non scambiare il cervello di Voltaire con la sua parrucca e con i soprammobili della sua stanza. E anche se parrucca e stanza sono poi tutt’altro che oggetti del tutto eterogenei ad aspetti della realtà storica di Voltaire, e se io non caldeggerei affatto un’assoluta interpretazione di Voltaire senza elementi di tipo rococò, sta di fatto che nella sua stessa poetica di scrittore, persino nelle poesie piú leggere, galanti e spiritose, vibra e vive un afflato illuministico che dà a quegli stessi elementi di gusto e di costume un significato piú complesso e nuovo, una funzione di comunicazione e di brio relative ad un edonismo per nulla evasivo e da embarquement, ma straordinariamente pungente, combattivo, antiascetico, liberatore.

40 Già cit.

41 München, 1959.

42 G.R. Hocke, Die Welt als Labyrint, Manier und Manie in der europäischen Kunst, Hamburg 1957, pp. 143, 197.

43 Si pensi al modo con cui Crescimbeni ed altri arcadi guardano al petrarchismo di zona secondocinquecentesca e in prospettiva diversa da come a questa guardano i barocchi. Cfr. in proposito R. Scrivano, Il manierismo nella letteratura del Cinquecento, Padova 1959.

44 R. Cave Flowers, Voltaire’s Stylistic Transformation of Rabelaisian Satirical Devices. A Study in Epoch Styles: Renaissance transformed into Rococo, Washington 1951.

45 G. Lukács, Breve storia della letteratura tedesca, trad. it., Torino 1955, p. 34.

46 A. Valbuena-Prat, Historia de la literatura española, Barcellona 1937, II, p. 286.

47 A cura di J.T. Shipley, London, s.d.

48 V. Santoli, Storia della letteratura tedesca, Torino 1957, pp. 112, 126. V. anche a p. 127.

49 M. Praz, Storia della letteratura inglese, Firenze 1946, pp. 194-195.

50 La descrizione del gabinetto della toilette del giovin signore è definita «il primo quadretto rococò del poema» (G. Parini, Il giorno, a cura di A. Momigliano, Catania 1925, nuova ed. Torino 1960, nota al v. 474 del Mattino) e a commento dei vv. 491-494 si ribadisce: «altra immaginazione rococò».

51 G. Parini, Il giorno cit., nota al v. 164 del Mezzogiorno. Che può essere (insieme alla citazione successiva sul Savioli) anche un’apertura per una precisazione storico-sociale dell’arte rococò come arte fortemente legata alle condizioni e alla rappresentazione (anche da parte di artisti di condizione diversa) della società nobiliare italiana specie settentrionale.

52 G. Mazzoni, Giuseppe Parini, Firenze 1929.

53 D. Petrini, La poesia e l’arte del Parini, Bari 1930 (poi in Dal barocco al decadentismo, Firenze 1957, I, pp. 181, 183, 206).

54 A. Momigliano, Storia della letteratura italiana, 8a ed., Milano 1959, p. 328.

55 Ivi, p. 364. Sul valore di questi spunti di «storia letteraria» del Momigliano si veda il mio saggio Attilio Momigliano, in «Il Ponte», 1960, p. 886 ss.

56 A. Momigliano, Gusto neoclassico e poesia neoclassica (sotto lo pseudonimo di Giorgio Flores), in «Leonardo», 1941, poi in Cinque saggi, Firenze, 1945, p. 11.

57 Ivi, p. 33.

58 Andrà segnalato come piú ovvia conseguenza della problematica tedesca l’uso, del resto sporadico e poco impegnativo, del «rococò» nella letteratura settecentesca italiana nel recente volume di Alfred Noyer-Weidner, Die Aufklärung in Oberitalien, München 1957.

59 Ferruccio Ulivi, Settecento neoclassico, Pisa 1957.

60 Rinvio in proposito al mio recente saggio Poetica, critica e storia letteraria, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1960, p. 3 ss., ora in volume, Bari, Laterza, 1963.

61 Proposta che, come dirò, può arricchire e accentuare la considerazione letteraria e artistica di poetiche in cui, del resto, gli stessi elementi culturali e storici sono considerati non deterministicamente, ma in un rapporto interno alla poetica come direzione artistica e introduzione alla decisiva prova del risultato artistico.

62 Basti ricordare in proposito almeno, per la rinnovata valorizzazione dell’illuminismo italiano, gli studi di F. Venturi (il volume sul Radicati, Torino 1954, l’antologia di Illuministi italiani, Milano-Napoli 1958, ecc.), il volume miscellaneo diretto da M. Fubini, La cultura illuministica in Italia (con la collaborazione di storici, economisti, storici-letterari come M. Fubini, F. Venturi, W. Binni, ecc.), e, per una nuova attenzione alla ricchezza delle correnti preromantiche del secondo Settecento, il mio Preromanticismo italiano, Napoli 1948 (1959); e per l’epoca arcadico-razionalistica gli studi sotto citati del Croce, del Fubini, e miei, nonché i lavori storici sui vari stati italiani come quelli del Berengo per Venezia e del Quazza per il Piemonte. Per la recente produzione storico-letteraria e storica sul Settecento italiano rinvio alla mia rassegna settecentesca, dal 1953 in poi, in «La Rassegna della letteratura italiana».

63 Ciò che è stato confermato autorevolmente nelle successive relazioni del Sedlmayr e del Ronga sul rococò figurativo e musicale.

64 Dietro la spinta anche dell’identificazione e dell’uso indistinto di «rococò» e «barocchetto».

65 In realtà la relazione di Delio Cantimori è stata ben lontana dal proporre simili rischi ed anzi ha portato una forte riduzione agli entusiasmi delle estensioni del barocco a tutti gli aspetti della storia e vita dello stesso Seicento. E ha indicato come, alla fine, sotto certe estensioni «barocche» (come quella che congloba in «barocco» la grande scienza sperimentale da cui nacque la reazione al barocco) vi sia un effettivo, anche se inconsapevole a volte, animus reazionario e controriformistico. E del resto mi par chiaro che anche nei riguardi della letteratura barocca italiana si avverta ormai l’esigenza (valgano in proposito gli studi di F. Croce sul Dottori, sui critici moderato-barocchi, ecc.) di uno studio dinamico, articolato e distintivo delle varie poetiche secentesche, della tensione interna del barocco e di elementi che in questo tendono a distaccarsene e a funzionare diversamente: in direzione, insomma, di un quadro piú storico e vero del Seicento rispetto a totalizzazioni indiscriminate ed anche ad arbitrari trasferimenti nella considerazione del Seicento italiano di considerazioni di elementi ben diversamente validi in altre letterature e civiltà secentesche. Insomma se si può esser ben lontani dal rifiuto di tentativi di unificazione e di periodizzamento (io stesso ne sono stato piú volte promotore per varie fasi della nostra letteratura: decadentismo, preromanticismo, ecc.), mi pare che proprio una coscienza storicistica e storico-critica porti sempre piú a ricercare rappresentazioni storiografiche complesse, dinamiche e articolate e a star molto guardinghi di fronte alla vocazione onnivora dei «Begriffe» e delle unità epocali indistinte e generiche. Né d’altra parte sarà da ricordare come il «barocco» abbia ragioni di esistenza anche in letteratura assai piú del «rococò».

66 Rinvio in proposito al mio saggio Le origini della poetica arcadica e la letteratura fiorentina di fine Seicento in L’Arcadia e il Metastasio, Firenze 1963. E naturalmente alle pagine del Croce nella Storia dell’età barocca e nel saggio sull’Arcadia in Letteratura italiana del Settecento e al saggio del Fubini Arcadia e Illuminismo in Dal Muratori al Baretti, Bari 1954.

67 R. Chase, Dickinson, New York 1950.

68 Tale formula «componente di gusto», anche al di là dell’ambito della letteratura, è stata accolta con molto favore da Lionello Venturi in due articoli sul convegno dei Lincei nell’«Espresso», 5 giugno 1960, e in «Europa letteraria», 1960, n. 2.

69 Si veda in proposito l’acuta distinzione di Glauco Natoli entro la stessa poesia di J.B. Rousseau in Figure e problemi della cultura francese, Messina 1956, pp. 251-273.

70 Si v. ora Giulio Natali, Storia del «non so che», in «Lingua nostra», 1958, p. 13 ss., e la mia scheda relativa ne «La Rassegna della letteratura italiana», 1960, p. 341. Si v. anche S. Caramella, L’estetica italiana dall’Arcadia all’Illuminismo, in Momenti e problemi di storia dell’estetica, II, Milano 1959.

71 V. il già citato mio saggio Le origini della poetica arcadica e la letteratura fiorentina di fine Seicento. Sulla scia di quello studio si v. ora, per il Redi, l’articolo di C.A. Madrignani, La poetica di Francesco Redi nella Firenze letteraria di fine Seicento, in «Belfagor», 1960, p. 402 ss. Si v. anche la recensione di F. Croce («La Rassegna della letteratura italiana», 3-4, 1957, pp. 568-570) al saggio di W. Moretti sul Magalotti che ha il torto di non considerare (come invece ha fatto piú tardi) anche nel Magalotti almeno elementi nuovi e in direzione prearcadica nella sua diagnosi stilistica «panbarocca».

72 Di un «piccolo barocco» parlarono alcuni scolari del Calcaterra, il Forti e il Saccenti. Ma si v. in proposito le mie schede in «La Rassegna della letteratura italiana».

73 Su cui si v. il mio saggio Il petrarchismo arcadico e la poesia del Manfredi, in L’Arcadia e il Metastasio cit.

74 Rimando per una diagnosi storico-critica delle tendenze arcadiche mature al mio Sviluppo della poetica arcadica nel primo Settecento, in L’Arcadia e il Metastasio cit.

75 Che è la preoccupazione di tanti sonettisti prearcadici e arcadici, dal Redi in poi, e corrisponde (pur con derivazioni di barocco moderato) soprattutto alla confluenza di ragione ed estro, alla volontà di una linearità classicheggiante, ma animata e briosa, ed entro il teatro si svolge nella maturazione arcadica della commedia fino al Nelli con la sua volontà di finali ragionevoli brillanti.

76 Gusto miniaturistico con tensione scenica che si ritrova realizzato entro direzioni ironiche-umoristiche nello Starnuto di Ercole del Martello, notevolissimo esempio di brio e ritmo di tipo arcadico-rococò. Il Martello è del resto uno degli autori piú sintomatici per un piccolo realismo idillico o miniaturistico percepibile anche nel suo canzoniere per il figlio Osmino. Mentre anche nel canzonettismo e madrigalismo il gusto del «non so che» e del miniaturismo (come corrispettivo di un senso piacevole della vita elegante e sicura e insaporita di idillio) si precisa, fra tendenze artistiche e costume sentimentale, nelle sintomatiche espressioni di un Forteguerri («Se potessi far io / in tutto a modo mio, / sai tu che vorrei fare? / Vorrei il mondo scorciare / e farne poca cosa, / ma però graziosa: / un campo, una villetta, / e quivi, o mia diletta, / viver teco e morire, / ma non poter partire») o di un Pozzi («che se al tutto fosse priva / di quel certo non so che / che si chiama spirto e grazia / non farebbe piú per me»).

77 Le tendenze melodrammatiche del Metastasio, la linea melodica e patetica del suo linguaggio, il modulo del suo paesaggio e delle sue figure (per non dire delle canzonette, specie della Partenza), l’incontro di grazia ed elegante semplicità, ben si possono rappresentare in un movimento di maturazione che, fra gusto ed esigenze intime, par muoversi dal classicismo piú rigido iniziale, attraverso il recupero, e un superamento dall’interno, di floridezza sonora e colorita, immaginosa di eredità soprattutto prebarocca, in un rococò arcadico assai sobrio e ricco di autentica forza sentimentale. Andrebbe poi considerata sulla via teatrale cosí forte nel Settecento (pur rifiutando le troppo facili adeguazioni del secolo teatrale e della vita come teatro che è un altro dei modi suggestivi, ma arbitrari di falsificare il Settecento e di ridurlo a giuoco di maschere e di finzioni sceniche) la librettistica melodrammatica che ha pure le sue cesure e i suoi cambiamenti (si pensi all’Ascanio in Alba del Parini), ma che nella zona metastasiana trova, anche nel piú forte incontro con le suggestioni scenografiche, delle caratteristiche di tipo rococò. Mentre occorrerebbe considerare nel rapporto letteratura-pittura i molti saggi dell’Algarotti. Anche nelle traduzioni dei classici le differenze di quelle del primo Settecento arcadico da quelle veramente neoclassiche successive possono trovare una utile integrazione nella caratterizzazione della loro poetica appunto nella componente rococò che io ho già utilizzato in tal senso: si v. in proposito il mio saggio G.M. Pagnini, traduttore neoclassico, in questo volume, p. 101 ss. Con tutto ciò non caldeggerei affatto una semplice e totale riduzione della Arcadia in semplice versione italiana di un rococò letterario europeo, ché troppo facilmente si perderebbero gli elementi piú intensi della discussione estetica a base classicistica e razionalistica dell’Arcadia, le tensioni graviniane che ad essa appartengono (Gravina e Conti), e la centrale spinta razionalistica che anche in campo europeo contraddistingue lo sforzo di un Pope o di un Gottsched, il suo rapporto con un preilluminismo, che (con tutti i suoi limiti e le remore prudenziali, poi termine di polemica nel vero illuminismo, cosí come la poetica arcadica sarà termine di polemica nelle posizioni illuministiche piú decise) costituisce pure il legame con la zona illuministica vera e propria.

78 In coincidenza anche con l’inizio della diffusione della pittura pompeiana-ercolanense su cui già aveva insistito il Momigliano e che potrebbe precisarsi – sulla cronologia della pubblicazione delle Tavole ercolanensi – in corrispondenza alle offerte di queste piú congeniali al gusto classicistico-rococò denunciato dalle stesse introduzioni degli editori dei primi volumi delle Tavole (nei primi volumi – fra ’55 e ’65 – prevale l’elogio del «grazioso e vago», «irregolare e capriccioso», mentre negli ultimi, posteriori alla diffusione del neoclassicismo winckelmanniano, si esalta il «semplice» e «sublime»).

79 Per la storia del gusto e della poetica pariniana rimando al mio capitolo La sintesi pariniana in Preromanticismo italiano, Napoli, 19592 e ai miei saggi La Poesia del Parini e il neoclassicismo, e Parini e l’illuminismo, in Carducci e altri saggi, Torino 1960.

80 A. Noyer-Weidner, Aufklärung in Oberitalien, München 1957, p. 74.

81 Si veda il mio saggio Il «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis», (1959), in Classicismo e Neoclassicismo cit.

82 Sul rapporto, e sui suoi limiti, fra arti e letteratura saran sempre da considerare le opportune considerazioni di E. Cecchi in «L’Europeo», 1950 (a proposito dell’edizione illustrata del Furioso, a cura di E. Vittorini, Torino 1950), che, senza condurre ad uno scetticismo o al rifiuto assoluto, inducono ancora una volta a diffidare di sincronie e coincidenze facili e semplicistiche variamente ripresentate da istanze di Stilgeschichte, Geistesgeschichte e sociologismo, unilaterali o giustapposti, come molto spesso avviene in una comune base di descrittivismo e determinismo astratto, di contro a piú concrete e complesse prospettive storico-critiche.